Duecentomila italiani ogni anno vanno all’estero per una terapia odontoiatrica maggiore. La protesi fissa a metà prezzo a volte è una prospettiva allietata dalla chance di un soggiorno turistico in riva all’Adriatico, al Mar Nero, al Mediterraneo. Associazione Italiana Odontoiatri dice basta e spiega che la questione va affrontata con serie campagne informative ai pazienti sui danni del “turismo odontoiatrico”. E forse con detrazioni in meno. Accanto al dato macroscopico dei viaggi della speranza in paesi dove il costo della vita è inferiore, dal Congresso della Società Italiana di Parodontologia viene fuori che inglesi, francesi, italiani tornano contenti per aver risolto i problemi odontoiatrici a metà prezzo. Salvo, dopo 3-6 mesi, manifestare in 60 casi su 100– è un dato della British Dental Association su utenti inglesi ma ben si attaglia a noi –  infezioni, ascessi, difficoltà a masticare. In realtà non tutti tornano dal dentista, né però riprendono aereo e traghetto per reclamare. Quell’uno su tre che si stima debba curarsi di nuovo è solo la punta di un iceberg. «Si tratta di pazienti che non ne possono più per il dolore e le infezioni e optano per cure che, in cambio di un esito clinico riparativo, alla fine fanno lievitare i costi sopportati. Infatti – spiega Danilo Savini Segretario Sindacale AIO – se pure all’estero con i viaggi si risparmia un 50% di quanto si sarebbe speso in Italia (in stati dove il costo della vita è comunque meno di metà che da noi), tornati qui non ci si confronta soltanto con costi più elevati – e più di tanto il dentista non può fare perché sostiene anche lui spese forti – ma con la necessità di estrarre l’impianto, rifare la cura canalare, ricostruire. Un processo più complesso e costoso di quello affrontato all’inizio».

Il Segretario Sindacale AIO, nella foto, sottolinea un secondo aspetto che in genere affiora poco. «Per 30 utenti che tornati a casa chiedono cure riparative c’è un sommerso che non torna dal dentista, perché non ce l’ha o perché teme le conseguenze. C’è una necessità di continuità terapeutica che non viene soddisfatta. Tra i motivi, il fatto che spesso il dentista del paese ospite pianifica i lavori sulla base di dati incompleti rispetto a quelli di cui si dispone in Italia con il flusso continuo di dati digitali dato dal rapporto “longitudinale” tra medico e paziente».

C’è poi un terzo aspetto. «Il collega che rimette le mani su un lavoro svolto all’estero, nel nostro ordinamento si prende la responsabilità medico-legale del lavoro del “predecessore” straniero. Ora, se è vero che deontologicamente non possiamo non prenderci carico delle sofferenze di un paziente, è anche vero che non è per noi un obbligo caricarci di un lavoro gravato da rischi da tutte le parti». Come affrontare la spinosa questione? Per Savini, serve una informazione dettagliata sui rischi di questi viaggi, e servirebbe però anche una qualche misura di dissuasione. «Lo stato italiano non può impedire di curarsi all’estero, ma potrebbe non consentire di scaricare dalle tasse interventi il cui importo è inferiore ai costi sopportati dal professionista italiano per attivare la medesima terapia. Il 19% di detrazione, per costi stracciati e magari comprensivi di viaggi che includono persino il soggiorno in hotel non dovrebbe essere consentito; sarebbe più opportuno “donare” quella detrazione riportandola su spese odontoiatriche sostenute su pazienti a reddito medio-basso. Ricordando che, come risulta dal congresso Sidp, l’Italia è tra i primi dieci per qualità delle cure dentali».

« A volte viene da chiedersi quanti pazienti tornino con la fattura dall’Albania o dalla Turchia e se lo stato abbia una responsabilità sociale verso chi decide di investire per la propria salute il 70% in meno. Come afferma John Greenspan, padre della Health Literacy, “la cura dei denti e delle gengive è responsabilità degli odontoiatri; la salute orale è responsabilità di tutti”», commenta Gerhard K Seeberger. Il Presidente nazionale AIO osserva una ciclicità nella tendenza degli italiani a curarsi all’estero. «Va detto che in questi anni affrontiamo un’inflazione pesante. I primi viaggi in Slovenia e Croazia risalgono al 1992 e 1993, e sono legati sia allo sviluppo di un’offerta sanitaria in quei paesi sia all’inflazione dovuta, da noi, alle conseguenze della prima guerra del Golfo. Tuttavia gli odontoiatri italiani –che tra l’altro come categoria sono tra i contribuenti più trasparenti per il Fisco – sono sempre venuti incontro alle richieste dei pazienti, e spesso le hanno anticipate con un’accurata prevenzione, consentita dai contatti assidui, dai frequenti richiami. Chi ci conosce si cura in Italia e questo messaggio andrebbe amplificato».

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