Regione che vai sistema autorizzativo che trovi per gli studi odontoiatrici. Ma non tutti sono buoni: il sistema laziale troppo burocratico oltre a dare un senso di precarietà ai dentisti potrebbe aver causato un calo delle prestazioni odontoiatriche e danni erariali. Fanno pensare i risultati di un’indagine Eurispes presentata a Roma a un incontro indetto dall’Associazione italiana odontoiatri, che mette a confronto gli iter adottati nelle principali regioni. Dallo studio emerge che, tra 2005 e 2013 (dati Istat), pur essendo cresciuto il numero di pazienti rivoltisi alle strutture in franchising, è diminuito il ricorso a otturazioni (dal 43 al 25% degli intervistati, -18%) ed estrazioni (dal 20 al 13%, -7%). Si tratta proprio di due degli interventi che nelle strutture low cost si pagano meno che nel piccolo studio del dentista di fiducia. Invece, sia per l’invecchiamento sia per correre ai ripari di fronte a situazioni trascurate, è aumentata (4,2%, dal 12,3 al 16,5%) la percentuale di chi ricorre agli impianti, non più cari dal dentista che nel grande centro. Purtroppo però il dentista “tipo” in alcune regioni ha difficoltà a investire e fare impresa. E’ il caso del Lazio. 

I guasti della burocrazia nel dentale

Se in Lombardia – riporta l’indagine Eurispes – per partire con lo studio basta una dichiarazione d’inizio attività, in Emilia Romagna e in Basilicata si fa una netta distinzione tra studio di cui autocertificare l’apertura e ambulatorio da autorizzare; e in Toscana si chiedono solo spazi idonei in caso di studio associato. Nel Lazio invece dal 2007 fino al luglio del 2014 si è richiesto a tutti i dentisti non solo l’autorizzazione ma adempimenti per ottenerla così complessi da costringere il 22% a rivolgersi a una società ad hoc, come dimostra un’indagine parallela di AIO Roma. Ad ingarbugliare ancor più la situazione la Regione con un decreto ha richiesto nel 2012 ai professionisti odontoiatri di rinviare su supporto informatico lo stesso dossier già presentato su cartaceo, pena il ritiro delle autorizzazioni. Risultato: la regione non ha guadagnato nulla, anzi da una parte risulta da essa effettuato solo il 30% dei controlli sui documenti, dall'altra ha perso vari ricorsi al Tar da parte di quanti, pur avendo già provveduto precedentemente agli adempimenti per via cartacea, si sono viste revocate le autorizzazioni. «In un contesto di declino del servizio sanitario pubblico dove un 5% in più di pazienti rispetto alla media nazionale è disposto a spendere di suo per curarsi, l’odontoiatra vive uno stato di precarietà che non la mette in grado di decollare ed è gravata anche economicamente», osserva l'avvocato Angelo Caliendo, coordinatore dello studio realizzato da Eurispes. E continua: «Il peso della burocrazia in Italia è già tale che creare una start-up costa 2.673 euro contro i 399 euro medi dell’Unione Europea; un’impresa impiega 269 ore di lavoro per pagare 15 balzelli che incidono sul 65% del suo profitto. Un taglio del 25% dei costi della burocrazia aumenterebbe il Pil, si stima, di 1,7 punti percentuali. Nel Lazio, dove gli studi dentistici sono equiparati ad ambulatori specialistici che effettuano attività invasive, ipotizziamo un dispendio superiore. E’ bene che altre regioni non ripetano analoghi errori». 

Il quadro autorizzativo

Oltre a preparare la strada a un’imminente mappatura dei 20 sistemi autorizzativi  italiani, l’indagine Eurispes conferma i guasti dovuti all’assenza di una legge nazionale. E’ il Regio Decreto 1265 del 1934 a distinguere i gabinetti medici dagli ambulatori: solo i secondi vanno autorizzati dal Prefetto, i cui poteri con il Federalismo e la riforma del titolo V della Costituzione sono stati ereditati dalle regioni. «La differenza tra ambulatorio e studio è nell’organizzazione autonoma: se prende un’influenza il titolare di uno studio l’attività si ferma, se la prende il titolare di un ambulatorio tutto prosegue», dice Stefano Colasanto segretario Aio Lazio. «Con la legge Bindi – spiega Caliendo – le regioni hanno potuto imporre l’autorizzazione agli studi che effettuano prestazioni invasive. L’odontoiatria non c’entra ma il concetto di prestazione invasiva è stato allargato o ristretto a seconda della regione. Hanno provato le Marche per prime ma nel 2003 la Cassazione ha bocciato la legge che imponeva di autorizzare gli studi; la Calabria ha semplificato salvo poi non mettere in pratica il modello. La nostra indagine ha scelto tre regioni benchmark, come ha fatto la conferenza Stato-regioni con Lombardia, Emilia Romagna e Umbria per i costi standard in sanità; in odontoiatria al posto dell’Umbria abbiamo l’esempio virtuoso lucano. Nel complesso – conclude Caliendo – esistono tre modi di entrare nel rapporto dentista-paziente: il modello delle regole lombardo-emiliano che consente l’autocertificazione, il modello della concertazione toscano e triveneto che fa dialogare istituzioni “apprensive” e dentisti, e il modello del comando imposto nel Lazio e bocciato nelle Marche».

 

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