§ – In base all’articolo 193 del RD. 1265 del 1934, senza l’autorizzazione sanitaria non si possono aprire o mantenere in esercizio, ambulatori, case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica. Le istituzioni sanitarie private che devono essere autorizzate sono quelle dotate di attrezzature, ancorché minime, in cui si esercita l’attività medica con finalità speculativa da parte di operatori privati. In altre termini, l’autorizzazione è richiesta per tutte le strutture che abbiano un’interna organizzazione di mezzi e di personale diretta alla cura di talune malattie anche di natura dermatologica, le quali, in relazione alla loro funzione, assumono un’individualità propria distinta da quella dei sanitari che ivi prestano la propria opera. Nel caso di specie era stato accertato che l’istituto praticava trattamenti di medicina estetica di varia natura anche mediante apparecchiatura laser per la depilazione ed era reclamizzato come centro di medicina estetica e dermatologica. [ Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net ]

Cassazione penale Sez. III, Sent. n. 21806 del 05/06/2007

Omissis

IN FATTO

Con sentenza del 4 maggio del 2004, il tribunale di Lecce ha condannato X alla pena di euro 400,00 di ammenda, oltre al pagamento delle spese processuali, quale responsabile, in concorso di circostanze attenuanti generiche, del reato di cui all’articolo 193 TULLSS approvato con RD 27 luglio 1934 n 1265, per avere aperto in Lecce, senza l’autorizzazione sanitaria, un ambulatorio di medicina dermatologica ed estetica, Fatto accertato il 16 marzo del 2000 in Lecce Ricorre per cassazione il difensore dell’imputata deducendo: la violazione della norma incriminatrice e manifesta illogicità della motivazione, in quanto l’attività svolta dalla X propria assistita non poteva essere definita medica per la presenza di un solo apparecchio per la depilazione laser trattandosi di uno strumento di depilazione che svolgeva solo una funzione estetica; la prescrizione del reato
IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile per la manifesta infondatezza dei motivi.
In punto di fatto si è accertato che l’istituto gestito dall’imputata praticava trattamenti di medicina estetica di varia natura anche mediante apparecchiatura laser per la depilazione. Esso era reclamizzato come centro di medicina estetica e dermatologica.
In sede di sopralluogo gli investigatori hanno acquisito un biglietto in cui si legge. "XX-Centro medico Specializzato in depilazione permanente- Consulenza medica dermatologica"-
In base all’articolo 193 del R-D. 1265 del 1934 senza l’autorizzazione sanitaria non si possono aprire o mantenere in esercizio, ambulatori, case o istituti di cura medico-chirurgica o di assistenza ostetrica. Come già statuito da questa corte le istituzioni sanitarie private che devono essere autorizzate sono quelle dotate di attrezzature, ancorché minime, in cui si esercita l’attività medica con finalità speculativa da parte di operatori privati (cfr Cass 4882; 17434 del 2005) .
In altre parole l’autorizzazione è richiesta per tutte le strutture che abbiano un’interna organizzazione di mezzi e di personale diretta alla cura di talune malattie anche di natura dermatologica, le quali in relazione alla loro funzione assumono un’individualità propria distinta da quella dei sanitari che ivi prestano la propria opera.
Sono esclusi dall’autorizzazione gli studi dei professionisti liberi dove il singolo sanitario esercita la propria professione e dove si accede normalmente per appuntamento
Nella fattispecie la prevenuta gestiva come imprenditrice una struttura da lei stessa definita "Centro medico specializzato in depilazione permanente- consulenza medica- dermatologica". Appare quindi evidente che si trattava di locali ove si svolgeva anche attività di medicina estetica e dermatologica per fini imprenditoriali e, perciò, occorreva l’autorizzazione sanitaria
Il reato non si è prescritto perché ha natura permanente giacché la condotta antigiuridica si perpetua fino a quando si esercita l’attività senza la specifica autorizzazione. Quella indicata nel capo d’imputazione è la data dell’accertamento e non della consumazione del reato.
Secondo l’orientamento di questa corte, nell’ipotesi in cui il capo di imputazione contenuto nel decreto di rinvio a giudizio indichi esclusivamente la data di accertamento di un reato permanente, senza nessun riferimento a quella di cessazione della permanenza, il giudice del dibattimento deve appurare, attraverso l’interpretazione di detto capo, considerato nel suo complesso, se esso riguardi una fattispecie concreta la quale, cosi come descritta, sia già esaurita prima o contestualmente all’accertamento medesimo, ovvero una condotta ancora in atto: in tal caso, poiché il capo d’imputazione ascrive all’imputato una condotta che, lungi dall’essersi già esaurita, è ancora perdurante alla data in esso indicata, deve ritenersi che la contestazione comprenda anche l’ulteriore eventuale protrazione della permanenza, di cui pertanto può tenere conto il giudice del dibattimento ad ogni effetto penale, senza che sia richiesta a tal fine un’ulteriore contestazione da parte del pubblico ministero. In tale caso la permanenza cessa con la sentenza di condanna (cfr per tutte Cass Sez unite Il novembre 1994, Polizzi).
D’altra parte, il difensore non ha indicato una data anteriore alla sentenza di condanna. In ogni caso, quand’anche il reato si considerasse consumato alla data dell’accertamento, l’inammissibilità del ricorso per la manifesta infondatezza del primo motivo impedirebbe di dichiarare la prescrizione maturata dopo la sentenza impugnata, secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni unite di questa corte con le sentenze n. 32 del 2000; n.33542 de12001,n 23428 del 2005)
Dall’inammissibilità del ricorso discende l’obbligo di pagare le spese processuali e di versare una somma, che stimasi equo determinare in € 1000,00, in favore della cassa delle ammende, non sussistendo alcuna ipotesi di carenza di colpa della ricorrente nella determinazione della causa d’inammissibilità secondo l’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.l86 del 2000
P.Q.M.
LA CORTE
Letto l’art. 616 c.p.p.
DICHIARA
Inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di € 1000,00 in favore della cassa delle ammende
Cosi deciso in Roma il 18 aprile de1 2007
omissis

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